Andrei Molodkin, Fuck You, 2011, scultura in plexiglass riempita di petrolio, pompa, compressore e base di alluminio, 155,5x36,5x8 cm
di Luca Maffeo, il 05/05/2011
Non è una critica quella di Andrei Molodkin (Boui, 1966), è una posizione, perché provocare non significa necessariamente essere contro, ma prendere posizione rispetto a ciò che accade. A Milano lo sanno, Cattelan docet! Niente violenza, nessun insulto, ma la possibilità semplice e buona dell’arte di rendere manifesta la poesia del presente, nel tentativo di scovare sotto la crosta dell’umana contraddizione ciò che c’è di necessario e di ultimamente costitutivo. Penna a sfera e petrolio sono le sue armi; parole ed economia appaiono vuote, dimentiche e tremolanti per chi non ha più nulla da dire e lascia che gli eventi correnti, tra lotte di religione e politiche inutili, facciano il loro corso. Sono scarni i suoi strumenti, apparentemente effimeri – come d’altronde lo è l’arte –, eppure altrettanto necessari a ribadire di una lampante maniera lo stato degli eventi in atto. Nel momento in cui tutto sembra ridotto ad un subire e reagire, l’artista russo pone un quesito non da poco, mentre sradica lo spettatore da ogni presunta apatia e libera dall’orgoglio la parte più sincera dell’animo e del corpo, obbligando a riflettere su ciò che siamo e su ciò che non vorremmo mai essere.
Molodkin sembra domandarsi quale sia la sorgente della vita odierna, la fonte dalla quale sgorgano la dignità e il desiderio dell’uomo, non scomparsi, ma solo appassiti in questo presente in cui la causa politica e militare pare più importante. Al calpestarsi l’un l’altro egli mette una chiara cesura e dice “Fuck You”!
Con una pompa a pressione aziona e riempie le vene di una scultura cava, nella quale è necessario che scorra la sostanza rigenerante del petrolio. Come un malato affetto da dialisi, la scritta chiede del prezioso plasma i continui ricambi, i quali, in modo alterno, vuotano e colmano il corpo disidratato. Ma è un carburante improduttivo, destabilizzato dal battito lento e irregolare della pompa, capace solo di debilitare il fisico e annebbiare l’intelletto. Torna così in mente la scultura Il Rosso e Il Nero, presentata nel 2009 alla Biennale di Venezia, dove due copie della Nike di Samotracia in vetro trasparente contenevano rispettivamente il grezzo e il sangue di soldati ceceni morti in battaglia. Questa è la forza dell’artista russo, la cui poesia richiama la vita del genere umano alla dignità che gli è propria, senza trascurare ciò di cui siamo fatti: oltre al peccato, di sangue e di carne.
Come il sangue il petrolio, e come il petrolio l’inchiostro. Scorrono sulla pagina bianca della tela parole palpitanti, che seguono nel gesto della mano il ritmo del battito. Ogni scoppio di pompa le smuove, e tremano. Anche le parole sono «fluidi pulsanti», incerti, ma vivi, e la penna a sfera, essa «ripete ritmicamente questi attriti, provocando lo sfarfallio del testo. L'effetto collaterale è la sfocatura» (A. Molodkin).
La falla dalla quale esce a fiotti il sangue della terra ha il suo riverbero sulla cultura e la coscienza degli uomini, dei quali la parola scritta è la più autorevole memoria. Sono la condizione, Sin (peccato) e Amen (così sia), i due estremi necessari, parti costitutive di un individuo distrutto dalle proprie ambizioni, perché ad essere in crisi non è il sistema, l’economia, ma noi che la governiamo e fondiamo tutto su di essa. Molodkin proclama l’autenticità dell’uomo sincero, e lo dice sulla tela con voce tremante, incostante e potente. Sì, noi possiamo (Yes We can) ci dice, individuare con cognizione di causa laddove il sistema è instabile e inerme davanti al proprio male, poiché della guerra è più pericolosa l’indifferenza.
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